Siamo con Antonio Guida, chef del Seta del Mandarin Oriental di Milano, premiato dai giudizi delle più importanti guide gastronomiche e dalla fedeltà di una clientela cosmopolita abituata alle migliori tavole del mondo. Lo incontriamo all’Hotel Tyrol a Selva di Val Gardena, dove è venuto a dare un colpo d’ala alla cucina di Alessandro Martellini, uno dei «suoi» ragazzi, di quelli che si sono formati sotto la sua guida e che, arrivato lì da quattro anni, sta facendo parlare di sé. Il maestro e l’ex alunno si scambiano idee, scoperte, suggerimenti. Che a cena diventano un menù incrociato. Chiuso da due piatti classici di Antonio Guida. L’idea di questa intervista è di farvi sapere che quando andate in un ristorante cosiddetto «gastronomico», cioè firmato da un cuoco di fama, in cucina non ci deve per forza essere un alter ego dei giudici di MasterChef o di Hell’s Kitchen, che si comportano come i protagonisti di un film di Tarantino tra l’umiliazione e il terrore degli aspiranti cuochi. Anzi. Chi non pratica e rifiuta lo stereotipo della cucina violenta forma cuochi più affidabili, più creativi e in definitiva migliori nell’apprestare delizie per i nostri palati.
Nel mezzo del servizio uno dei ragazzi sbaglia l’assemblaggio di un piatto. Lei cosa fa?
«Lo faccio rifare velocemente da un altro».
Non si arrabbia?
«Durante il servizio tutto deve procedere con la massima concentrazione senza che si creino intoppi e nervosismi».
E dopo?
«Dopo io e il sous-chef ci sediamo con il ragazzo, eseguiamo quel piatto, glielo facciamo vedere e assaggiare, gli chiediamo di descrivere le differenze e gli diciamo di rifarlo. Così capisce, impara, e la volta successiva gli riesce alla perfezione».
Esiste una vocazione a fare il cuoco?
«Esiste una attitudine. Alessandro Martellini, per esempio, che ha lavorato con me al Pellicano a Porto Ercole aveva la passione per la caccia e per la pesca. Si capiva subito che amava il cibo».
Quanto tempo ci vuole a formare un cuoco?
«Chi ha stoffa in tre o quattro anni è pronto per fare uno scatto avanti. Allora mi piace aiutarlo ad allargare la sua visione e il suo palato mandandolo da colleghi amici. E si crea un legame che continua nel tempo».
Da cosa capisce se un ragazzo ha la stoffa per entrare nel circolo privilegiato delle grandi cucine?
«Dalla determinazione. È un mestiere che esige di rinunciare a tutto. Gli orari sono pesanti, quando gli altri fanno festa si lavora, spesso si vive per anni lontano da casa. Perciò a me piace che mi chiedano un consiglio, che si sentano parte di un progetto. Non che, come a volte succede, lo chef non sappia neanche il nome dei ragazzi che lavorano nella sua cucina. Spesso li incoraggio a collaborare nella creazione di un piatto. E magari vengono fuori idee che arricchiscono anche me».
Come è stato per lei?
«Non credo nella cucina violenta per temperamento e per aver lavorato con Pierre Gagnaire a Parigi, un grande esempio della “trasmission du savoir”, la trasmissione del sapere, il passaggio consapevole e rispettoso da chi sa a chi vuole apprendere. Sostituiamo i termini militareschi con altri: famiglia anziché brigata, insegnamento anziché addestramento».
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