Mi piace andare all’etimologia delle parole e ricordo spesso che tradizione viene dal latino tradere, che significa consegnare. Dunque un gesto di relazione, che richiede la presenza di due attori, uno a consegnare, l’altro a ricevere. Se quest’ultimo è assente (come quando suona il postino e nessuno risponde) la consegna fallisce, nessuna tradizione è possibile. Ciò significa che la tradizione non vive nel passato ma nel presente. Che siamo noi a renderla possibile, anche adattandola a esigenze che nel tempo sono cambiate perché tutto è movimento, finché le cose sono vive.
La tradizione medievale del tortello di zucca – giusto per fare un esempio – è arrivata fino a noi ma durante il percorso molto è cambiato: al posto della medievale lagenaria, la zucca mediterranea di colore giallo-verdino, dalle forme strane, storicamente usata anche per costruire fiaschetti e vari contenitori, si è cominciato a usare la zucca americana arancione, arrivata in Europa dopo la conquista spagnola. Con il colore è cambiato il sapore: meno acquoso, più intenso, più dolce. Oggi in cucina si è quasi dimenticato il prodotto più antico. Nel frattempo il tortello ha perso il gusto pungente delle spezie, che tanto piaceva ai signori del Rinascimento, privilegiando la morbidezza del burro e del formaggio. Gualtiero Marchesi, sullo scorcio del Novecento, ha provato ad aprirlo, modificandone forma e consistenza. Nelle trattorie popolari è rimasto più simile a com’era, ma con tante piccole «correzioni» e varianti locali, che via via lo hanno portato fino a noi. Simile ma diverso. Tradizionale ma innovativo.
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Anche il concetto di innovazione merita un pensiero attento. Spesso si confonde con l’invenzione, ma le due idee sono piuttosto diverse. L’invenzione (pensiamo ancora a Marchesi) è sempre individuale. Nasce da un pensiero, da un’intuizione innestata su qualcosa di preesistente – se un tortello si apre, significa che la tradizione ce lo ha consegnato chiuso. Può anche capitare (non nel caso di Marchesi) che l’invenzione si diffonda, perché serve ad aggiustare, migliorare, perfezionare la tradizione. Perché piace. Ed ecco che alcuni, poi altri, poi tanti, magari un’intera comunità facciano propria quell’idea, ritenendola utile. A quel punto l’invenzione ha creato innovazione, ha modificato un modo collettivo di fare le cose, di preparare il cibo. L’invenzione (individuale) è stata condivisa e a poco a poco ha cambiato i modi di fare. Ha provocato un’innovazione (collettiva), cioè una nuova tradizione. Faccio anche qui un esempio. L’uso dei pinoli e del formaggio come ingredienti del pesto genovese fa indubbiamente parte della tradizione. Ma si tratta di «aggiunte» a una più antica salsa di sole erbe, testimoniate non prima della seconda metà dell’Ottocento. L’invenzione (fatta da chi, non sappiamo) evidentemente era piaciuta. Si generalizzò e finì per innovare la ricetta. Di storie come questa se ne potrebbero raccontare all’infinito. A ribadire che la tradizione si alimenta di invenzioni, e che le invenzioni, quando sono condivise, generano innovazione, cioè una nuova tradizione. La quale ovviamente non preclude il recupero di tradizioni diverse, magari più antiche, che la storia ci ha trasmesso e che noi – oggi – siamo liberi di accogliere o di rispedire al mittente. Come quando suona il postino.
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