Strutto oggi sembra una parolaccia di quelle da non pronunciare in cucina, nei menù non viene strombazzata come grani antichi e lievito madre, in etichetta viene riportata sottovoce. Le diciture «senza glutine», «senza olio di palma», «con olio extravergine di oliva» campeggiano sulle confezioni di molti prodotti come valore positivo, ma dello strutto… neppure l’ombra. Sembra una bestemmia per la linea e la sana alimentazione, ma in verità l’Italia è una Repubblica fondata sullo strutto, anche se oggi ce lo siamo scordati. Il grasso di maiale è diventato un ingrediente da demonizzare, eppure è parte integrante di quella tradizione che dichiariamo di voler proteggere.
Nello strutto ci si friggeva le chiacchiere di Carnevale (negli anni Ottanta, non due secoli fa), lo si usava per le piadine, nell’impasto della pizza, nei pasticciotti così come in tante altre ricette tipiche che oggi preferiamo con olio di oliva, burro o, peggio, molto più spesso con margarina. Lo strutto, e più in generale il grasso di maiale, è stato per secoli molto utilizzato, dal Friuli al casatiello napoletano, e ha dato sapore a tanti piatti del nostro passato. Poi è stato messo da parte, ma merierebbe una riscoperta.

La cucina romana – codificata dal ricettario del proto-gastronomo Apicio – era basata sull’olio, vero simbolo (assieme al pane e al vino) della civiltà agricola latina. Ma quella che raccontava nel trattato De Coquinaria era una cucina ricca, perché il grasso di maiale era in realtà il più diffuso perché povero. Se gli ulivi crescono infatti nel Meridione e in poche altre zone della penisola, in ogni casa, dal Nord al Sud, si è sempre allevato il maiale, di cui ovviamente non si butta via niente. Lardo (lo strato appena sotto la cotenna) e sugna (grasso della zona surrenale e interstiziale) sono sempre stati utilizzati. Lo strutto invece è tecnicamente il prodotto della fusione di lardo e scarti, e sembra sia arrivato in Italia grazie alla dominazione spagnola della Sicilia. Sottoprodotto della lavorazione dello strutto, i ciccioli.

La moda del maiale
La fortuna del grasso di maiale la si deve in Italia non solo a motivi economici di mera disponibilità, ma culturali. Quando nell’Alto Medioevo si diffonde la cultura germanica e con essa il suo sistema alimentare, lardo, sugna e burro diventano il simbolo della nuova civiltà barbara nomade e pastorale. Conseguenza dell’affermazione politica e sociale, «il lardo diventa il grasso per eccellenza anche della cucina aristocratica e perfino l’alimentazione monastica, così severa nei confronti dei consumi carnei, si adegua all’uso generale», spiegano i due storici Capatti e Montanari nel loro saggio La Cucina Italiana (Laterza). L’incontro tra cultura germanica e cultura romana cambia gli usi e i costumi, ma soprattutto cambia il gusto.
La quaresima e la rivincita del burro
«Fanno eccezione i periodi “di magro” e di astinenza quaresimale, durante i quali ogni cibo animale è bandito», proseguono i due storici. I giorni di magro diffondono infatti l’uso del pesce e del baccalà in ogni regione, dell’olio di oliva e di altri oli vegetali, almeno fino agli ultimi secoli del Medioevo, quando le autorità ecclesiastiche accettano l’uso del burro. La moda cambia e così il burro si diffonde dal Nord al Sud, diventando secolo dopo secolo sempre più diffuso ed elegante, declassando sugna, lardo e persino olio sulle tavole più sofisticate. Fra Seicento e Settecento la grande cucina francese diventa sinonimo di lusso, e il burro diventa definitivamente chic. Alla fine dell’Ottocento, riflettendo sulla varietà di tradizioni nelle varie aree della penisola, Pellegrino Artusi propone una geografia dei grassi alimentari da cui è assente, ormai, ogni riferimento al calendario liturgico: «Ogni popolo», scrive, «usa per friggere quell’unto che si produce migliore nel proprio paese. In Toscana si dà la preferenza all’olio, in Lombardia al burro, e nell’Emilia al lardo». Con l’Unità d’Italia la scelta torna a basarsi sulla disponibilità e cultura locale; almeno fino all’invenzione (più che alla scoperta) della dieta mediterranea da parte di medici e giornalisti americani che rimetteranno in ombra i grassi di origine animale e proclameranno il primato dell’olio extravergine di oliva.

Strutto: poco, ma buono
Se la sugna è più delicata, lo strutto è saporito ed è alla base del sapore caratteristico di molte ricette italiane: gnocco fritto, erbazzone, tigelle, sebadas e pardulas sarde, brioche e cannoli siciliani. Lo strutto si usa come ingrediente nell’impasto, come nelle piadine, oppure per friggere i dolci di carnevale: chiacchiere, struffoli, zeppole, tortelli, castagnole e pure i cannoli sono fritti nello strutto. A dispetto della sua nomea, fa molto meno male di quello che si crede. Ha un’elevata quantità di vitamina D e più grassi monoinsaturi (quelli buoni) di quanti ne abbia il burro, ma soprattutto ha un punto di fumo elevato per cui è adatto a cotture ad alta temperatura come la frittura. Quanto mangiarne? I grassi occupano circa il 30% della nostra dieta, e meno del 10% dovrebbe provenire da grassi saturi di origine animale. «Adesso lardo e strutto hanno una composizione che si avvicina a quella di molti oli vegetali, principalmente soia e mais, perché i maiali sono alimentati con queste granaglie e loro oli. Inoltre oggi abbiamo cambiato le idee sul ruolo che il colesterolo contenuto negli alimenti ha nel determinare i suoi livelli nel sangue del consumatore, che sono prevalentemente determinati dal suo metabolismo e dalla genetica», scrive il professor Giovanni Ballarini, accademico nella Delegazione di Parma dell’Accademia Italiana della Cucina. Ciò significa che lo strutto è, come molti altri ingredienti, qualcosa da usare con parsimonia, ma da non cancellare, né in nome del valore gastronomico né di quello nutrizionale. Basta mangiarne poco, ma buono.
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