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Sale, le linee guida per ridurre il consumo

Sessanta cucchiaini a testa in meno di sale all’anno: è l’obiettivo dell’ente governativo statunitense Food and Drug Administration, che questa settimana ha pubblicato le sue nuove linee guida per spingere gli americani a ridurre la quantità di sale che consumano.

La raccomandazione è rivolta soprattutto ai produttori alimentari e ai ristoranti, a cui viene chiesto di diminuire la quantità di sale aggiunta ai loro prodotti per i prossimi due anni e mezzo, sperando di ridurre l’assunzione complessiva di sodio degli americani del 12%. La passione degli americani per i cibi salti, infatti, è collegata a tassi allarmanti di ipertensione, che è uno dei principali fattori di rischio per infarti, ictus e insufficienza renale. Più di 4 adulti americani su 10 hanno la pressione alta.

Secondo le ricerche, gran parte dell’eccesso di sodio che gli americani consumano, circa il 70%, proviene da alimenti trasformati e confezionati e dai pasti serviti nei ristoranti.

In Italia
La stessa percentuale si riscontra anche in Italia: circa il 75% del consumo di sale, i due terzi, proviene dai prodotti confezionati. È il cosiddetto “sale nascosto”, che si trova in tantissimi alimenti, anche quelli “insospettabili”. Il pane, ad esempio, contiene circa 2 grammi di sale per 100 grammi (più o meno 2 fette). Il sale occulto si trova soprattutto negli alimenti trasformati, come snack (tarallini, panetti croccanti, grissini e crackers), salumi (pensiamo ai wurstel) e formaggi (in particolare nelle sottilette), nei piatti industriali (specialmente nelle impanature), nei sughi pronti e nei cibi in scatola. Ma anche nei biscotti e negli snack dolci, e in questi casi l’eccesso di sale spesso non viene percepito dal nostro palato.

Anche in Italia, quindi, la Sinu (Società Italiana di Nutrizione Umana), che si occupa da anni di educare al consumo del sale, sa cercando di fissare dei target, “che purtroppo in Italia non esistono”, come spiega Pasquale Strazzullo, presidente della Società. “Entro pochi mesi – ha spiegato a Huffington Post – credo che saremo in grado di stabilirli anche noi”. La Sinu sta lavorando per adattare i valori di riferimento “alla nostra dieta mediterranea, per poi trasmetterli al Ministero della Salute”.

Il nesso causale tra consumo di sale, ipertensione e rischio cardiovascolare è, ormai da tempo, ampiamente riconosciuto, e molti studi hanno dimostrato che anche solo una moderata diminuzione di sale si associa alla riduzione della pressione arteriosa e, di conseguenza, alla prevenzione di eventi cardiovascolari come l’ictus cerebrale, l’infarto e lo scompenso cardiaco.

Secondo i dati di uno studio italiano realizzato tra il 2008 e il 2019, presentato al Congresso Sinu di Genova e pubblicato sulla rivista Nutrition, Metabolism and Cardiovascular Disease, organo ufficiale della Società, nell’ultimo decennio il consumo medio di sale in Italia si è ridotto del 12% circa. Questa percentuale, però, supera ancora ampiamente i bisogni fisiologici e i valori raccomandati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: meno di 5 grammi di sale al giorno, cioè circa 2 grammi di sodio, tra quello già presente negli alimenti e quello aggiunto, quindi più o meno un cucchiaino da tè (e l’obiettivo è la riduzione del 30% del consumo medio di sale entro il 2025).

Negli ultimi anni, gli italiani sono più consapevoli dei rischi dovuti all’eccesso di sale, ma il loro comportamento a tavola non è ancora sufficientemente attento. Il consumo giornaliero attuale, per gli uomini, corrisponde a 9,5 grammi e, per le donne, a 7,2 grammi. Eppure, riducendo fino a 5 grammi il consumo quotidiano di sale in Italia, la mortalità per ictus diminuirebbe del 23% e quella per malattie cardiache del 17%.

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