C’è da credere alla nonna dello chef Roberto Valbuzzi quando del nipote dice: «È genuino così come si mostra». In televisione, al ristorante o sui social. Ma anche dal vivo, come fan, curiosi o semplici appassionati di cucina hanno potuto constatare di persona incontrandolo al Castello di Somma Lombardo per la prima delle presentazioni del suo nuovo libro. E l’interessato conferma: «Non faccio nulla di straordinario, cerco di mostrarmi per quello che sono». “Cuoco, Ristoratore, Contadino: Ricette, sapori e ricordi fatti d’aria, terra, acqua e fuoco“, appena uscito per Gribaudo, non raccoglie soltanto le ricette nate a casa insieme alla moglie Eleonora, ma anche quello che c’è dietro.
Tre le istantanee che non sono passate inosservate al pubblico di Somma: la famiglia al completo radunata a sostenere il suo pupillo, i lunghi abbracci dello chef con il papà Leonardo, patron del ristorante Crotto di Valtellina a Malnate, e la figlia, la piccola Alisea di quasi 2 anni, che a più riprese è salita sul palco insieme al padre.
Chef Valbuzzi, quanto deve alla sua famiglia?
«Tanto. Mi ha dato la possibilità di crescere a contatto con il cibo e la natura e mi ha trasmesso una passione forte che si tramanda ormai da tre generazioni. Una delle cose più belle del cibo è il racconto che c’è dietro: le ricette da sole non bastano, dietro alle mie c’è un vissuto e una quotidianità che io voglio far passare a mia volta».
Da piccolo suo padre non voleva che entrasse in cucina…
«È la fortuna-sfortuna di avere una famiglia che ama alla follia questo mestiere. Io stavo sempre con i nonni materni in fattoria e facevo la spola con il ristorante dove lavoravano i miei. Ma il ristorante per me era comunque casa, lo è tuttora, perché era un luogo di amore, per via delle persone che c’erano e per quello che si faceva».
Da lì il passo è stato breve. Che lezione ne ha tratto?
«Fare lo chef, lavorare in un ristorante, vuol dire vivere del benessere che il cibo ti porta. Non sei tu la star, ma devi essere al servizio degli altri; le stelle casomai sono i clienti che vengono, ti fanno vivere la tua passione e fanno sì che diventi il tuo lavoro. Anche quando sono dietro la telecamera cerco di far passare il messaggio giusto: il nostro più grande successo è fare un buon servizio. Alla mia brigata dico sempre: “Stasera facciamoli sognare”».
E a casa qual è l’approccio giusto verso la cucina?
«Bisogna far sì che la cucina diventi quella parte leggera del pensiero del buon cibo e non il lamento “anche oggi devo cucinare”. Occorre lasciarsi ispirare dalle ricette, attualizzandole nel quotidiano di ciascuno. E non bisogna abituarsi mai a mangiare le stesse cose, per la sostenibilità delle ricette e per quello che la natura ha da offrirci: nel nostro piccolo, tutti i giorni, possiamo dare un contributo».
Come sceglie prodotti e ingredienti per il suo ristorante?
«Credo che identità e territorialità siano fondamentali per farci vivere la cucina e apprezzare il luogo in cui ci troviamo: ne giova l’ambiente e ne possiamo trarre beneficio anche noi. Nella zona dell’Insubria per esempio c’è un’eccellenza poco nota: il caprino fresco di Casale Roccolo di Binago, provincia di Como, che si è aggiudicato solo qualche giorno fa la medaglia d’argento ai World Cheese Awards. Oppure gli agrumeti sul lago Maggiore, sconosciuti ai più. È ricercando e curiosando che possiamo mangiare meglio e rispettare la stagionalità».
Nel libro parla di sapori e ricordi legati ai quattro elementi…
«La cucina è un piacere quotidiano da cui mi lascio trasportare insieme ai suoi ricordi. L’acqua mi riporta al salmerino e al lavarello, ma soprattutto alle uscite a pesca con mio nonno. L’aria invece è quella buona e pulita della montagna, dove vado per funghi, castagne e mirtilli selvatici. La terra è il lavoro da contadino e la fattoria dei nonni, mentre del fuoco amo il barbecue e le cotture a fiamma libera. E mi rammenta quella cucina che mi era vietato visitare: un luogo pericoloso per un bambino, ma che restavo a guardare dallo spioncino».
Intervista di Filippo Facco
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