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Migrazioni: la cucina italiana nel mondo

La cucina italiana non è solo in Italia. Ha fatto il giro del mondo e si è adattata, amichevolmente, a incrociarsi con esperienze diverse, confrontando ricette e mescolando sapori. Questa cucina migrante ha conosciuto diversi protagonisti: libri, persone, prodotti. Modi diversi per esportare esperienze e saperi, mentre percorsi in senso inverso arricchivano di nuove prospettive la nostra cultura gastronomica. All’inizio furono soprattutto i libri. Già gli anonimi ricettari del Trecento oltrepassavano le Alpi, contribuendo a costruire una cucina «europea» che proprio allora stava prendendo forma, con varie declinazioni nazionali e regionali. Ma fu a metà Quattrocento che la gastronomia italiana si impose in Europa, grazie a un cuoco (Maestro Martino) e a un letterato (Bartolomeo Sacchi, l’umanista Platina) che si conobbero nella Roma papale e probabilmente lavorarono insieme: Martino a scrivere le ricette, Platina a metterle in bell’italiano. Il ricettario di Martino, rimasto manoscritto, non fece molto parlare di sé; ma il trattato di Platina Sul piacere onesto e la buona salute, pubblicato a metà del secolo, lo riportava parola per parola, integrandolo con considerazioni storiche, dietetiche, filosofiche sul cibo. Grazie alla stampa, quel trattato ebbe larga diffusione in Europa, sia nella versione originale in latino, sia nelle traduzioni (in francese e in tedesco) che ne furono fatte nel corso del Cinquecento. In quel modo la cucina di Martino influenzò in modo decisivo la cucina europea di età rinascimentale, portandovi, in particolare, la sapienza nell’uso delle verdure, una caratteristica della tradizione popolare italiana che anche i testi di alta cucina recepirono e trasmisero. I cuochi di Caterina de’ Medici, consorte di Enrico II re di Francia, contribuirono forse a consolidare una presenza già significativa. Ma non è a loro che si deve l’accento italiano del gusto europeo in età moderna.

Di natura ben diversa fu l’ondata migratoria che a fine Ottocento portò in giro per il mondo milioni di poveri italiani in cerca di lavoro e di migliori condizioni di vita: essi portarono con sé le scelte semplici di una cucina essenziale, esportando in Europa e negli Stati Uniti un modello alimentare centrato sulla pasta, diventata, all’epoca, il piatto di resistenza quotidiana di molti italiani. «Mangiamaccheroni» furono chiamati, per dileggio. Ma la pasta non tardò a uscire dai quartieri italiani e quell’epiteto finì per diventare un segno di orgoglio nazionale. Anche perché, nel frattempo, la nascente industria alimentare aveva cominciato a spedire nel mondo prodotti di qualità: da Bologna partivano curiose confezioni di tortellini e di mortadelle; altre specialità diffondevano i gusti di un Paese magari povero, ma sempre attento al piacere del cibo. Un Paese dai mille problemi ma che continua a proporre un modello gastronomico virtuoso, apprezzato ovunque per la qualità della sua cucina e di cuochi che la promuovono in modo sempre più consapevole. È un modello che, soprattutto, sa esportare la cultura della biodiversità, vera eccellenza italiana. La varietà locale dei prodotti, dei sapori, delle ricette continua a essere la marcia in più di questo Paese, ed è tale varietà che si propone al mondo, a contrastare la crescente omologazione dei gusti – uno spettro per il quale la nostra cucina sembra costituire il migliore antidoto.

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