Il segreto è la capsaicina: un composto chimico presente, in diverse concentrazioni, nelle piante del genere Capsicum che fa parte della famiglia delle Solanaceae. Quella dei peperoni e soprattutto dei peperoncini che ne posseggono generalmente molta a differenza dei fratelli maggiori, con concentrazioni diverse a seconda delle varietà. Se questa è la definizione tecnica, quella comune lo vede sinonimo di piccantezza, quel bruciore (piacevole quando non eccessivo) che esalta i piatti di tutte le cucine del Sud del mondo. Compresa la nostra, dove ha un ruolo fondamentale nei primi piatti (l’aglio, olio e peperoncino, o l’arrabbiata sono gli esempi più facili), ma fa capolino quando occorre, pure sulla pizza e nella realizzazione di salumi. Notorio che il peperoncino italiano per eccellenza sia calabarese, ma anche Campania e Abruzzo danno un bel contributo alla produzione. Né va dimenticato che negli ultimi anni – grazie alla diffusione della cucina etnica – sono arrivate decine di varietà quasi sconosciute da noi ed è molto più facile procurarsi un aji amarillo come uno jalapeño.
Recettori nervosi
Torniamo alla capsaicina. Perché può rappresentare un toccasana per le (tante) persone che a causa del Covid-19 non ritrovano il sapore. La «potenza di fuoco» del peperoncino non implica – come molti pensano – l’attivazione dei recettori del gusto e dell’olfatto (sensazioni chimiche) né sono responsabili delle sensazioni fisiche (tipo il caldo). In realtà, innesca le cosiddette sensazioni chemestetiche attraverso degli altri recettori nervosi che trasmettono il piccante (o il pungente, persino il formicolio) con una risposta in pochi secondi. Ecco perché gli specialisti di analisi sensoriale considerano il peperoncino tra i migliori prodotti in assoluto per i training volti al recupero dell’equilibrio sul cibo. Ovviamente, questo non significa esagerare: bisogna sempre valutare la scala di Scoville che si basa – guarda caso – sulla quantità di capsaicina contenuta nel prodotto. Porta il nome di un grande chimico statunitense che nel 1912 studiò lungamente il tema, per primo, e decise arbitrariamente che la capsaicina pura avesse un valore di 16 milioni SHU (Scoville Heat Units) mentre all’opposto il peperone dolce (non contenendola) non potesse che valere zero SHU. In mezzo, tutte le varietà al mondo.
Il valore degli SHU
Va detto che da noi – a parte gli addetti ai lavori – non si parla molto di SHU. Invece, nelle Americhe, non solo molte salse indicano la piccantezza in unità di Scoville, ma persino nei mercati non è difficile trovare indicazioni precise sulle varietà. Ecco, allora, qualche SHU per capirsi meglio: la paprica viaggia tra 200 e 1000; lo jalapeño tra 5mila e 10mila; il calabrese sui 30mila; il tabasco 50mila e l’habanero 100mila-350mila. Per la cronaca, al top c’è il Carolina Reaper: un ibrido americano (incrocio tra un haga morich e un habanero rosso) che arriva a 2 milioni-2 milioni e 200mila ed è in grado di ustionare la pelle al solo contatto. A proposito di piccantezza, è facile cadere in un errore. Quando si esagera con le dosi o si ingerisce un boccone dove c’era un’alta concentrazione di peperoncino, istintivamente si cerca una bottiglia di acqua, birra, vino. Invece, un qualsiasi liquido non fa che spargere la capsaicina per tutto il palato, portando la sensazione alle stelle. Per mitigare gli effetti ci vuole un boccone di pane o, ancora meglio, un pezzo di formaggio, perché la caseina blocca i recettori. Per chi sta cercando di ritrovare il gusto, una sensazione del genere è auspicabile: vorrebbe dire che ci siamo.













0 Commentaires