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Da dove deriva il gusto “italiano”

Solo un’immagine preconcetta della cosiddetta cultura «subalterna» può farci credere che l’elaborazione gastronomica sia appannaggio esclusivo delle classi dominanti. L’invenzione nasce dal lusso tanto quanto dal bisogno (il fascino della storia è anche questo: scoprire come gli uomini, con il lavoro e con la fantasia, hanno cercato di trasformare i morsi e le paure della fame in potenziali occasioni di piacere). A costruire nel tempo un gusto «italiano» non è stata solo la rete orizzontale dei prodotti e dei saperi scambiati da un luogo all’altro del Paese, ma anche la rete verticale che ha incrociato gli apporti di tutte le classi sociali.

Fu questo, tra Otto e Novecento, il segreto che assicurò lo strepitoso successo di pubblico della Scienza in cucina di Pellegrino Artusi: in quel ricettario tutti potevano riconoscersi. La cucina borghese, che Artusi raccontava, aveva fatto tesoro della tradizione aristocratica e aveva un forte sostrato contadino. Ma voglio portare un esempio più antico, che ci riporta all’epoca d’oro del Rinascimento italiano e al cuoco di maggior fama del tempo, Bartolomeo Scappi. Il suo libro di cucina (Opera, 1570), oltre a centinaia di ricette, contiene i dettagli dei pranzi più importanti che gli capitò di allestire. Nel 1536, a Roma, quando era al servizio del cardinale Campeggi, preparò uno straordinario banchetto per l’imperatore Carlo V, l’uomo più potente del mondo. Il pranzo fu articolato in dodici servizi, per un totale di centocinquanta vivande. Di una di queste, i «rombi in pottaggio (in umido, ndr) alla Venetiana», troviamo la ricetta nella parte del libro dedicata ai pesci. Salto la descrizione e vado direttamente al finale, dove Scappi rivela dove ha imparato questa ricetta: «Nel tempo ch’io mi son trovato in Venetia e in Ravenna, ho inteso da pescatori di Chiozza, e Venetiani, li quali fanno i migliori pottaggi che in tutti i liti del mare, che non si usava di cuocerli in altro modo di quel ch’io ho detto». Formidabile. Il grande Scappi nel 1536 ha servito a Carlo V un rombo preparato secondo la ricetta dei pescatori di Chioggia e di Venezia. Quale migliore testimonianza del rapporto tra cultura popolare e cultura signorile? Sul contributo delle classi subalterne alla costruzione del patrimonio gastronomico italiano?

Il maestro di cucina che lavora per il cardinale Campeggi (poi passerà a dirigere le cucine del Papa) è un genio multiforme che ha costruito il proprio mestiere intercettando informazioni, saperi, pratiche da ambienti assai diversi – sul piano sociale oltre che geografico. Lavora a corte, ma non è affatto separato dal mondo che lo circonda. Ha studiato gli usi locali – propone ricette da tutto il Paese, «alla romanesca», «alla fiorentina», «come si usa in Milano», o a Napoli, o a Bologna,o a Genova… – ed è capace di ascoltare la voce del popolo, che ha incontrato al mercato e per le strade delle città italiane. Ecco perché la nostra cucina è così ricca.

Testo di Massimo Montanari

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