È stagione di olio nuovo. Viste le tensioni nel mondo, sarebbe bello se fosse sempre tempo di ulivi. Per cristiani ed ebrei – lo sappiamo fin da bambini – il ramoscello è simbolo biblico di pace e di benessere. Ma l’albero è importante anche per i musulmani: nel Corano è considerato sorgente di luce nei cieli e sulla terra, precisando che non si trova né a Occidente né a Oriente ma esattamente al centro del cosmo, dove esprime simbolicamente la congiunzione e l’equilibrio tra Terra, Cielo e Inferi. Nessuna pianta è così radicata alla storia e alla cultura. «I popoli del Mediterraneo – scrisse Tucidide nel V secolo a.C. – cominciarono a uscire dalla barbarie quando impararono a coltivare l’olivo e la vite». Non serve però scomodare miti e storie antiche per parlare del miracolo dell’olio in cucina. Intanto, perché il succo di oliva (questo è, nient’altro che uno straordinario succo di frutta naturale) è il più sano degli alimenti, ottenuto solo e unicamente dalla semplice spremitura dell’oliva.
Le numerose varietà italiane
A renderlo eccezionale – e sempre diverso – sono le varietà di cui l’Italia vanta il primato a dimostrazione della biodiversità che ci regala il nostro lungo e stretto territorio: 533 cultivar autoctone contro, per fare un esempio, le appena 70 della Spagna, leader mondiale per quantità di olio prodotto, e le 52 della Grecia, la patria dei primi olivastri. Abbiamo il record in Europa di Dop (42) e Igp (7). Ogni varietà – trasformata in olio extravergine di oliva – ha una chiara identità e, potremmo dire, una sua missione nel valorizzare questo o quel piatto. Come per il vino, bisognerebbe avere la consuetudine di abbinare bene pietanza e olio, perché la goccia giusta può esaltare una ricetta o, all’opposto, spegnere qualche sapore.
Vediamo solo le cultivar più usate. L’olio ligure – il Taggiasco, particolarmente – è molto morbido, leggero, ideale per non prevaricare preparazioni delicate. Versatile è il Frantoio toscano dal bel colore verde con note giallognole, di sapore intenso medio-forte che rimanda al carciofo e al cardo su un fondo di mandorla secca. Toscano e allo stesso tempo pugliese è il Leccino, dai profumi vegetali e colore scuro, tenue nei sapori amari e piccanti; è consigliato su pesce e carni bianche. Restiamo in Puglia con l’amaro, le sensazioni di mandorle tostate e la piccantezza della comunissima Coratina; ideale sulle verdure cotte e sulla carne. In Sicilia sono da sempre in gara la Nocellara del Belice a Occidente e la Tonda Iblea a Oriente; in entrambi i casi è una esaltazione di sapori e profumi intensi: erbe selvatiche, talvolta agrumate con note di pomodoro verde per la Nocellara; armonia tra erba appena tagliata, carciofo, mandorla e aromi naturali per la Tonda Iblea. L’una e l’altra straordinarie nell’arricchire primi piatti o esaltare zuppe contadine.
Quali gli aggettivi per descrivere l’olio?
Rotondo, dolce, armonico, fruttato, sono aggettivi positivi per l’olio. Ma impariamo anche ad apprezzare l’amaro e il piccante. Sono sapori marcati solo nei migliori extravergini, perché dimostrano una buona presenza di polifenoli, gli antiossidanti naturali che fanno più che bene al nostro organismo. Amaro e piccante ci dicono molto anche delle capacità del produttore: 1) se tarda a raccogliere, le olive saranno troppo dolci perché eccessivamente mature; 2) l’estrazione corretta dell’olio si pratica con la molitura a freddo per preservare l’integrità dell’oliva; 3) nei blend si cerca di inserire cultivar ricche di polifenoli.
Qualità negative sono invece rancido (ossidato perché esposto all’aria), polveroso (sapore stantio), vinoso (a causa delle olive fermentate prima della spremitura), ammuffito (quando le olive sono rimaste a terra per troppo tempo).
Il bilancio 2021
Fatta salva la maestria di agricoltori e frantoiani, cosa ci riserva la campagna olearia 2021-2022? Anche quest’anno la qualità dovrebbe essere buona esattamente per lo stesso motivo per cui le quantità in molte zone saranno scarse: la perdurante siccità non ha fatto maturare le olive, ma ha impedito lo sviluppo della mosca olearia e di altri parassiti. Nel complesso la produzione italiana dovrebbe crescere del 15% (315 milioni di chili, rispetto ai 273,5 milioni dell’annata scorsa), ma col Paese spaccato in due: Sud bene, Nord malissimo, Centro così così. La Puglia sarà la regina dell’annata, con 140 mila tonnellate, quasi la metà della produzione nazionale; Calabria e Sicilia appaiate a 30-35 mila tonnellate, stabili rispetto al 2020. Bene Basilicata, Molise e Abruzzo, con crescita a doppia cifra. E qui finiscono le buone notizie. Più a nord ci si spinge, più i cali sono consistenti: -20/25% in Campania e Lazio, -30/40% in Umbria e Toscana, -80% nel Garda e in Trentino, -40% in Liguria; si salva la Sardegna con un -10%. Insomma l’Italia olivicola sorride, ma non festeggia, come fa invece il Portogallo (annata record). La Spagna è delusa, la Grecia ipotizza il peggior raccolto dal dopoguerra; la Turchia si accontenta come nel 2020. Marocco e Tunisia, sulla costa africana del Mediterraneo, tornano ai livelli di due anni fa dopo la pessima ultima stagione.
Antiche e nuove terre dell’Olio
Ficus, Olea e Vitis – tramanda Plinio il Vecchio – erano al centro del Foro Romano. Duemila anni dopo, 189 ulivi piantati tra l’Arco di Tito e il Colosseo e coltivati con metodo biologico ci regalano l’olio del Palatino, un extravergine di oliva fruttato di tutto rispetto. Le nuove frontiere dell’extravergine italiano sono da un lato proprio il recupero degli antichi territori e, dall’altro, la messa a dimora di nuovi uliveti, approfittando dei cambiamenti climatici. Significativo il caso del Piemonte: la risalita termica sta spingendo da alcuni anni molti giovani a impiantare uliveti nelle zone di Pinerolo, nel Monferrato e nel Canavese. Gli ettari coltivati sono ancora appena 250 con una produzione quest’anno di circa 800 quintali di olio da cultivar Leccina, Frantoio, Pendolino. In prova anche il Picholine, varietà francese che resiste bene al freddo.
Cover foto di Sergio Ramazzotti.
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